Di Lucio A. de Benedictis.
Lo scopo del processo esecutivo è quello di stabilire le regole secondo le quali il soggetto che ha ottenuto un atto a cui la legge attribuisce efficacia di titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c., deve sottostare al fine di ottenere il soddisfacimento del proprio diritto in danno del debitore esecutato. Tale complesso di regole ha in ultima analisi come scopo non solo il soddisfacimento del creditore, ma anche, vista l’enorme platea dei possibili acquirenti del bene, la loro tutela.
Gli acquirenti, infatti, sono coloro i quali di fatto monetizzano il credito che in questa fase ha “prevalenza” sul diritto di proprietà preventivamente hanno bisogno che l’ordinamento assicuri loro, come elemento imprescindibile, la garanzia di stabilità del loro atto di acquisto che deve essere inattaccabile, una volta che il G.E. abbia sottoscritto il decreto di trasferimento. Questo è il titolo che attribuisce la proprietà a chi risulta aggiudicatario e soggiace, ai sensi dell’art. 2919 c.c. , alle norme e regole che presiedono ai trasferimenti immobiliari in genere anche se l’acquisto non avviene per effetto della mutua volontà delle parti. L’aggiudicatario tuttavia non può pretendere, solo per aver “comprato all’asta”, di acquistare diritti e vantaggi diversi da quelli che sulla cosa oggetto di esecuzione aveva il debitore.
In realtà l’acquisto in seno alle procedure esecutive per espropriazione immobiliare esiste: tralasciando alcuni vantaggi fiscali in passato accordati dal legislatore agli aggiudicatari3 , possiamo ricordare che le nullità di cui al secondo comma dell’articolo 40 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 non si estendono ai trasferimenti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali . E così l’art. 40 u.co. della legge 47/85 e l’art. 46 del Dpr 380/2001, prevedono – a determinate condizioni – la possibilità di sanatoria dell’immobile trasferito con procedura esecutiva immobiliare entro 120 giorni dalla notifica del decreto di trasferimento.
Un’altra peculiarità è rappresentata dalla possibilità di acquistare alloggi edificati nell’ambito delle norme di edilizia economica e popolare, anche prima che sia trascorso il decennio di cui agli artt. 29, legge 60/63 e 28, legge 513/77 ed indipendentemente dal possesso, da parte dell’acquirente, dei requisiti prescritti per la cessione originaria di quei medesimi alloggi.
Per non parlare ovviamente all’effetto purgativo della vendita forzata di cui all’art. 586 c.p.c. correlato ovviamente all’avviso di cui all’art. 498 c.p.c. (la cui violazione è fonte esclusivamente di problematiche risarcitorie che non inficiano la vendita).
Nel trattare del tema generale della stabilità della vendita, è opportuno esaminare i temi della cessazione della vendita forzata ex-art. 504 c.p.c., della tutela dell’aggiudicatario e la posizione del professionista delegato, delle conseguenze della pubblicità irregolare o addirittura omessa, dell’aliud pro alio, dei danni causati dal debitore ed eventuale riduzione del saldo prezzo e delle ipotesi tassative della sospensione della vendita a prezzo ingiusto.
Un accenno merita anche la tematica di enorme interesse – considerata l’espansione dei casi in cui i provvedimenti dell’autorità penale possono incidere nel procedimento esecutivo civile – afferente il sequestro e la confisca penale del bene immobile pignorato.
Occorrerebbe anche parlare, nell’ambito del disposto dell’art. 187 bis disp. att. c.p.c., dell’estinzione anticipata del processo esecutivo con specifico riferimento ai casi di pagamento integrale dei creditori, dichiarazione di fallimento, accesso alla procedura di concordato preventivo o crisi da sovraindebitamento, caducazione del titolo del creditore procedente e perenzione del pignoramento ex art 2668 ter c.c., tuttavia trattare esaurientemente tali questioni amplierebbe molto il presente contributo che non ha pretese di esaustività ma solo di inquadramento generale della materia.
Sulla cessazione della vendita forzata ex art. 504 c.p.c.
E’ questo forse il tema più semplice: l’art. 504 c.p.c. dispone che “Se la vendita è fatta in più volte o in più lotti, deve cessare quando il prezzo già ottenuto raggiunge l’importo delle spese e dei crediti menzionati nell’articolo 495 primo comma.”
La norma in questione ha l’evidente e meritorio scopo di evitare eccessi nell’uso del procedimento di espropriazione forzata, atteso che essa è preordinata alla soddisfazione del credito, non altro.
Purtuttavia è evidente che la norma in questione non può che richiedere l’applicazione dell’equilibrata discrezionalità del Giudice: se ad es. per un credito di € 10.000,00 si sottopongono a pignoramento più beni del valore complessivo di € 100.000,00 a prima vista vi sarebbe sproporzione, ma se alcuni dei beni sottoposti ad esecuzione sono ipotecati, è evidente che il GE dovrà verificare (su sollecitazione del creditore) se le iscrizioni consentano o meno la realizzazione del credito per cui si procede, per cui non è il valore in discussione, ma la realizzazione concreta possibile, tenendo conto altresì del fatto che nel codice di procedura civile non sono previsti riparti parziali del ricavato dai quali verificare lo stato della procedura e dei crediti residui da soddisfare.
Tale norma è correlata all’art. 163 disp. att. c.p.c. secondo cui è il G.E. (o nelle procedure concorsuali il comitato dei creditori o in sua assenza il GD – artt. 42 e 104 ter L.F.) che deve disporre la cessazione, ove la vendita (ma questo avviene solo di rado) sia dallo stesso gestita. Se invece la vendita forzata sia svolta dal Professionista Delegato (la norma parla di «ufficiale incaricato») è evidente che raggiunto l’importo presumibilmente necessario per la soddisfazione dei crediti, il Professionista Delegato deve sospendere le operazioni di vendita e riferire al G.E. il quale potrà confermare la sospensione al fine della comparizione delle parti e del debitore ovvero pronunciarsi per la cessazione definitiva.
Ovviamente in ogni caso gli atti del Professionista Delegato sono impugnabili ex art. 591 ter c.p.c. mentre quelli del G.E. ex art. 617 c.p.c.
In materia si segnalano due pronunzie – entrambe datate ma uniche rinvenute sul tema – del Tribunale di Roma : l’una che riteneva che “Rientra nella previsione dell’art. 615 c.p.c. la denuncia dell’improseguibilità della procedura esecutiva per essersi verificata la fattispecie di cui all’art. 504 c. p. c., mentre va inquadrata tra le opposizione agli atti esecutivi la contestazione della legittimità dei provvedimenti successivi e dipendenti (nella specie: autorizzazione di gara in seguito ad aumento di sesto)” Tale pronunzia la si segnala solo per la incomprensibile scelta di utilizzare l’art. 615 c.p.c. ritenendo probabilmente che al raggiungimento dell’importo del credito verrebbe meno il titolo esecutivo, con interpretazione che mal si concilia con la discrezionalità accordata al GE.
L’altra che più interessa il tema della “stabilità” disponeva che “Il debitore che non ha richiesto la riduzione del pignoramento eccessivo ex art. 496 c.p.c. può denunciare la mancata cessazione della vendita mediante l’opposizione agli atti esecutivi attraverso l’ordinanza di aggiudicazione. Ne consegue che il giudice deve revocare le aggiudicazioni di ulteriori lotti venduti qualora il ricavato della vendita del primo lotto fosse sufficiente per la soddisfazione dei creditori concorrenti.”
Trattasi di decisione che, ove fosse stata seguita da altri Tribunali, avrebbe certamente minato la credibilità del sistema delle vendite coattive, ma che non appare condivisibile (nè fortunatamente ha avuto seguito): l’art. 504 c.p.c., infatti, non contiene alcuna previsione per ritenere che l’aggiudicazione possa essere revocata, dovendosi tutelare l’acquirente che ha acquisito un vero e proprio diritto all’aggiudicazione tutelato nei limiti di quanto previsto dall’art. 2929 c.c., anche in caso di nullità verificatasi e con l’unico limite della “collusione con il creditore procedente”.
Inoltre, gli artt. 483 c.p.c. (cumulo dei mezzi di espropriazione) e 496 c.p.c. (riduzione del pignoramento), evidentemente connessi all’art. 504 c.p.c. attribuiscono, come innanzi evidenziato, al G.E. solo una facoltà discrezionale, non un obbligo di ridurre il pignoramento o di ritenere l’esistenza del cumulo.
Sulla tutela dell’aggiudicatario e sugli obblighi del professionista delegato
Il tema di maggior interesse ed ampiezza è invece quello della tutela dell’aggiudicatario e del Professionista Delegato, viste le sue possibili responsabilità.
Già si è detto che la tutela del primo rientra nel disposto dell’art. 2929 c.c. che viene definita come la chiave di volta su cui si regge il sistema dell’espropriazione immobiliare, perchè se si facessero ricadere sull’aggiudicatario le conseguenze derivanti da eventuali vizi delle fasi del procedimento esecutivo, è ovvio che nessuno si avvicinerebbe più al mercato dell’esecuzione immobiliare che – dati del 2019 – riguarda oltre 200.000 aste immobiliari in Italia per un controvalore complessivo a base d’asta pari a Euro 28,4 miliardi.
Se così è, è evidente che la tutela dell’aggiudicatario dev’essere tale da rendere inattaccabile il suo acquisto. Ed in effetti l’art. 2929 c.c. dice proprio questo: l’espropriazione forzata, ancorché illegittima, è idonea a trasferire coattivamente e definitivamente il diritto di proprietà sul bene in capo all’aggiudicatario, salvo il caso di collusione con il creditore procedente. Trattasi di una vera e propria efficacia sanante delle nullità che non siano state fatte valere con gli strumenti dell’opposizione agli atti esecutivi e che ha l’evidente scopo di stabilizzare gli acquisti, incentivandoli, tutelando al tempo stesso l’affidamento incolpevole dell’aggiudicatario.
Nel trattare tale norma potrebbe parlarsi – a livello teorico ed esegetico – di concezione processuale e concezione sostanziale della stabilità, potrebbe parlarsi di previsione di quello che viene definito “regime di immutabilità” del provvedimento giudiziale non influenzato nè influenzabile da nullità verificatesi, superiore anche a quello di un giudicato (che è pur sempre attaccabile mediante la revocazione ex art. 395 c.p.c. nei casi previsti di dolo, prove false o rinvenimento di documenti decisivi) dato che nell’art. 2929 c.c. l’unico caso che può inficiare l’aggiudicazione è la “collusione con il creditore procedente”, ma in questo piccolo scritto non mi propongo di esaminare e confutare le tesi processualistiche che nel lavoro pratico, qual è il mio, consentono sicuramente la corretta comprensione del problema che ci occupa in concreto, ma richiedono un’architettura mentale diversa da quella che un avvocato ha.
Per cui, vorrei esaminare il problema pratico posto sia dall’art. 2929 c.c. che quello dell’art. 187 bis c.p.c. sulla base di quella che è stata l’evoluzione giurisprudenziale che ha raggiunto il suo grado di “stabilità” dopo la pronunzia delle sezioni Unite (21110/2012) che nell’interpretare l’articolo 2929 c.c. hanno deciso – come correttamente evidenziato in un condivisibile commento – “il sopravvenuto accertamento dell’inesistenza di un titolo idoneo a giustificare l’esercizio dell’azione esecutiva non fa venir meno l’acquisto dell’immobile pignorato, che sia stato compiuto dal terzo nel corso della procedura espropriativa in conformità alle regole che disciplinano lo svolgimento di tale procedura, salvo che sia dimostrata la collusione del terzo con il creditore procedente, fermo peraltro restando il diritto dell’esecutato di far proprio il ricavato della vendita e di agire per il risarcimento dell’eventuale danno nei confronti di chi, agendo senza la normale prudenza, abbia dato corso al procedimento esecutivo in difetto di un titolo idoneo” .
Il tutto partendo da un dato basilare: il procedimento esecutivo è un procedimento a “step”, dove la chiusura dell’uno non comporta alcuna conseguenza sul successivo, salva l’eventuale sospensione ex art. 618 c.p.c. all’esito di una opposizione degli atti esecutivi che nella gran parte dei casi è l’unico rimedio per far valere una eventuale illegittimità verificatasi.
Tanto applicando anche il disposto dell’art. 159 c.p.c., a norma del quale “la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti, né di quelli successivi che ne sono indipendenti”: nel processo esecutivo, la propagazione della nullità è condizionata all’impugnazione tempestiva dell’atto invalido con l’opposizione agli atti esecutivi.
Per cui, quid juris se la fase deliberativa della vendita da parte del GE sia affetta da nullità? Oppure che succede se il Professionista Delegato omette il pedissequo rispetto degli adempimenti pubblicitari previsti nell’ordinanza di vendita? Hanno effetto sull’aggiudicazione?
La premessa è ovviamente che il Professionista deve agire al meglio per il raggiungimento del fine dell’esecuzione – che è quello della monetizzazione della proprietà per la soddisfazione del diritto di credito – rispettando rigidamente, pena la sua responsabilità – l’ordinanza di vendita che la lex specialis che regola l’esecuzione.
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 07/5/2015 n. 9255 (Est. Dr. De Stefano), ha avuto modo di affrontare l’argomento in commento circa la stabilità dell’aggiudicazione e – contemporaneamente – la responsabilità del Professionista Delegato.
Quest’ultimo, infatti:
– aveva omesso l’affissione dell’avviso d’asta nell’albo del Tribunale di Trani e della Sezione Distaccata di Molfetta (luogo in cui si trovava il bene);
– aveva effettuato la pubblicità a mezzo stampa oltre il termine fissato nell’ordinanza di vendita;
– non aveva evidenziato nell’avviso d’asta che gli aggiudicatari potessero accedere a mutui in convenzione con l’ABI;
– non aveva dato prova dell’avvenuta pubblicazione sul sito web indicato dal G.E., nè della eseguita affissione di manifesti murari nella città di riferimento del bene.
Per il fine che qui interessa occorre verificare quale effetto abbiano avuto dette contestazioni sull’aggiudicazione e sulla stabilità della stessa.
Il Tribunale, rigettando l’opposizione agli atti esecutivi proposta dal debitore sulla base della valutazione dell’utilità dell’esito comunque raggiunto, aveva statuito che “se la nullità di un atto del processo esecutivo deriva dalla mancata conformità dello stesso rispetto al modello legale, certamente non può pronunciarsi tale nullità nel caso di conformità dell’atto medesimo rispetto a quanto previsto dalla normativa“, riteneva cioè condizione sufficiente per la vendita che una pubblicità comunque vi fosse, purché la normativa in tema di pubblicità (art. 490 c.p.c.) fosse stata rispettata nella forma minima e soprattutto si fosse raggiunto lo scopo della soddisfazione dei creditori.
La Suprema Corte, con l’arresto sopra indicato, invece, ha negato tale “utilità dell’esito” come requisito sanante partendo dall’applicazione del principio secondo cui “risponde ad esigenze primarie del processo esecutivo il rispetto rigoroso delle prescrizioni di volta in volta impartite dal giudice dell’esecuzione” … “rispetto rigoroso a tutela di tutti i soggetti coinvolti da quel processo, alcuni dei quali istituzionalmente in origine ad esso estranei, come la platea indifferenziata dei potenziali acquirenti, come pure a garanzia dell’indefettibile trasparenza delle operazioni di vendita forzata” evidenziando che:
– “la pubblicità imposta ope legis non può comunque mancare, neppure ove il Giudice disponesse – violando apertamente la legge – che da essa si possa prescindere”
– “le scelte discrezionali del G.E. in ordine alla pubblicità straordinaria o perfino alle diverse modalità di espletamento di quella prevista ope legis, una volta trasfuse nell’ordinanza che la vendita disciplina, non possono essere violate, quand’anche eccedenti il minimo previsto dalla normativa”
L’ordinanza di vendita e delega è definita come lex specialis cui il Professionista Delegato deve attenersi, in conformità a quanto stabilito sul punto dalla giurisprudenza.
Ciò posto, se le forme pubblicitarie dettate dal GE non sono esattamente e correttamente rispettate dal Professionista Delegato, ne deriva l’invalidità degli atti relativi. Tanto perché, afferma la suddetta sentenza, “ogni scostamento dalle specifiche istruzioni sancite nel caso concreto deve dirsi, senza possibilità di prova del contrario, come idoneo in astratto ed ex ante ad influire sull’esito successivo della gara, come perturbazione del percorso di raggiungimento delle relative notizie alla platea indifferenziata di potenziali interessati all’acquisto”
Per tale ragione la Suprema Corte aveva accolto il ricorso del debitore esecutato ed aveva disposto l’annullamento dell’ordinanza di aggiudicazione provvisoria.
Tuttavia, nella pratica, poiché l’opposizione non aveva ottenuto la sospensione del procedimento esecutivo ed il decreto di trasferimento era comunque stato emesso dal Tribunale e l’aggiudicatario era stato immesso nel possesso del bene, la decisione della Corte è rimasta un monito, ma senza risultati pratici in quel caso, restando al debitore unicamente l’azione risarcitoria nel caso di specie nemmeno intentata.
Un’altra pronunzia – anche se datata e inerente la vendita all’asta con incanto che per effetto delle recenti riforme risulta di fatto non più utilizzata– e che si ritiene di dover citare per l’ottimo commento del Prof. SASSANI che ne ha stigmatizzato il deliberato – è quella della Suprema Corte circa l’applicazione dell’ art. 2929 c.c.14 secondo la quale “la vendita forzata immobiliare con incanto eseguita in assenza del creditore pignorante e dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo, è insanabilmente nulla”. Trattavasi di un caso in cui il creditore pignorante aveva rinunziato agli atti esecutivi e l’interveniente era assistita da un procuratore legale fuori distretto e come tale (all’epoca) non legittimato.
Ebbene il Prof. SASSANI così scriveva: “Con questa pronunzia la Corte di Cassazione ribadisce la sua tendenza a neutralizzare la portata precettiva dell’art. 2929 c.c., norma in cui si suole vedere l’intento di tutelare in maniera forte l’acquisto compiuto dall’aggiudicatario (o assegnatario) alla vendita (o assegnazione) forzata…. Se si coordina il tenore letterale della norma con la disciplina del procedimento espropriativo, si ricava che solo nel caso di collusione tra il creditore procedente e il debitore sarà possibile opporre all’aggiudicatario … la nullità degli atti che precedono il trasferimento del bene … Negli altri casi, viceversa, la nullità di detti atti … resta definitivamente inopponibile all’acquirente …. Se queste premesse sono condivisibili, non sembra corretto l’allargamento … che la giurisprudenza suole fare del concetto di vendita”.
Conclude il Prof. Sassani dopo l’esame della giurisprudenza del tempo, affermando che “Non è difendibile la negazione dell’applicabilità dell’art. 2929 al caso di accertata inesercitabilità dell’azione esecutiva, sul presupposto che nella norma si fa solo menzione solo della nullità degli atti esecutivi. Se la disposizione sancisce l’indipendenza dell’atto traslativo finale dalla regolarità causale degli atti precedenti, il motivo per cui tali atti a produrre legittimi effetti (inesistenza dell’azione esecutiva, vizi formali intrinseci o altro) non potrà rilevare. Nessuna vera giustificazione, può sorreggere il distinguere tra motivo e motivo”.
La chiarezza di tale pensiero è disarmante!
Si giunge così a quanto deciso da Cass. civ. Sez. Unite Sent., 28/11/2012, n. 21110 la quale statuì che “Il sopravvenuto accertamento dell’inesistenza di un titolo idoneo a giustificare l’esercizio dell’azione esecutiva non fa venir meno l’acquisto dell’immobile pignorato, che sia stato compiuto dal terzo nel corso della procedura espropriativa in conformità alle regole che disciplinano lo svolgimento di tale procedura, salvo che sia dimostrata la collusione del terzo col creditore procedente. In tal caso, tuttavia, resta salvo il diritto dell’esecutato di far proprio il ricavato della vendita e di agire per il risarcimento dell’eventuale danno nei confronti di chi, agendo senza la normale prudenza, abbia dato corso al procedimento esecutivo in difetto di un titolo idoneo”.
Pertanto, l’unica tutela per il debitore che aveva vinto la lite (ma perso il bene nel caso trattato da Cass. n. 9255/15) restava quella risarcitoria ovvero di ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2041 c.c. nei confronti del creditore procedente.
Così si era espresso già in un risalente testo il Prof. LIEBMAN secondo cui “esaurita l’esecuzione con la consegna al creditore di quanto gli spetta, è definitivamente esclusa ogni possibilità di opposizione. Ciò non esclude peraltro che il debitore possa ancora far valere contro il creditore l’inesistenza del credito e conseguentemente l’illegittimità dell’esecuzione compiuta, a patto, ben s’intende, che le sue ragioni non siano state già negate in seguito ad opposizione da lui proposta precedentemente. Quest’azione, che non ha alcun più rapporto col processo esecutivo, ormai chiuso, e non si dirige né contro un atto esecutivo né contro il titolo, tende alla restituzione delle cose sottratte con l’esecuzione o quanto meno, se questa non è possibile, al pagamento della somma equivalente”
Ovviamente, poiché la circolazione dei beni è fondamentale ed ha ripercussioni ben oltre le vicende proprie della procedura esecutiva, anche il Consiglio del Notariato si è posto il problema se l’art. 2929 c.c. esima il Notaio dalla verifica della regolarità della provenienza dell’acquisto ove tra i pregressi trasferimenti rinvenga un decreto di trasferimento, avuto riguardo al fatto che il nonostante la trascrizione del D.T. non è dato avere conoscenza del contenuto del fascicolo del procedimento di esecuzione che ha portato all’emissione del D.T. e delle eventuali opposizioni proposte, non verificabili dai pubblici registri, e così scrive riferendosi alla lettura dell’art. 2929 c.c.: “Se non ci fosse l’inciso finale, una volta pronunciato e diventato definitivo il decreto di trasferimento, tutto quello che è avvenuto in precedenza nel processo esecutivo non potrebbe più emergere. E dunque la sua stabilità come atto assicurerebbe la “bontà”, o se si vuole la “robustezza”, della provenienza. Ma proprio perché invece esiste quella riserva, si tratta di ricercarne il significato al fine di verificare se il decreto di trasferimento, pur diventato stabile (perché né revocato né rimosso a seguito di un’opposizione agli atti), possa non assicurare il buon esito di un successivo trasferimento”.
Il Consiglio del Notariato si pone cioè il problema estremamente pratico della verificabilità da parte del Notaio e soprattutto del successivo acquirente delle problematiche sottese, dato che la pronunzia sull’opposizione potrebbe avvenire quando non è più pendente il processo esecutivo e non è verificabile, tenuto anche conto del fatto che l’emanazione del decreto di trasferimento comporta l’estinzione delle trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli.
Trattasi di studio precedente alla surrichiamata Cass. Sez. Un. N. 21110/12 che, però, evidenzia che in caso di collusione l’acquirente del bene riveniente da una vendita forzata non sarebbe protetto “e questa mancanza di protezione si tradurrebbe nella possibilità che la nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita ancora emerga, persino a processo esecutivo concluso”: è un dato indefettibile e soprattutto – si ribadisce – non verificabile da parte dei terzi acquirenti!
Questo è il punto problematico, atteso che la ricostruzione offerta dalla Suprema Corte non è in grado di chiarire definitivamente i dubbi sul fondamento del principio di stabilità della vendita forzata e sui limiti entro i quali tale principio vada riconosciuto, pur essendovi stata una enorme conquista nel tempo: quella di superare le singole nullità eventualmente verificatesi prima della vendita.
Tanto anche avuto riguardo al disposto dell’art. 187 bis c.p.c. a mente del quale “In ogni caso di estinzione o di chiusura anticipata del processo esecutivo avvenuta dopo l’aggiudicazione, anche provvisoria, o l’assegnazione, restano fermi nei confronti dei terzi aggiudicatari o assegnatari, in forza dell’articolo 632, secondo comma, del codice, gli effetti di tali atti.”
La portata di tale norma, riceve una ulteriore conferma alla luce della recente sentenza delle Sezioni Unite del 14/12/2020 n. 28387 (Est. Pres. De Stefano) che, come ormai è noto, ha statuito che “il decreto di trasferimento è in via immediata definitivamente produttivo dei suoi effetti propri, tra cui la cancellazione delle formalità pregiudizievoli gravanti sul bene che ne è oggetto, indicate nell’art. 586 cod. proc. Civ.”. Tanto significa che il Professionista Delegato, a prescindere da eventuali opposizioni od altro deve provvedere alla trascrizione dello stesso ed alle cancellazioni del caso, senza che il Conservatore possa opporre alcunchè in ordine alla sua definività in senso processuale.
Questo comporta che una volta sottoscritto il decreto di trasferimento lo stesso è definitivo e che eventuali opposizioni potranno avere riflessi risarcitori, ma i dubbi posti dal Consiglio Nazionale del Notariato non avrebbero fondamento (specie in caso di sub acquirente) essendo stata una volta di più riaffermata la certezza del trasferimento.
Sull’aliud pro alio e sull’evizione
E’ noto che col brocardo latino “aliud pro alio” s’indica, nel diritto civile, la totale difformità, materiale o giuridica, del bene consegnato (per esempio in una compravendita), e la sua conseguente inidoneità a svolgere la funzione economico sociale che sarebbe propria del bene non difforme. perché appartenente ad un genere diverso oppure perchè sia affetta da difetti che impediscono al bene venduto di assolvere alla sua funzione naturale ovvero alla funzione che le parti hanno assunto come essenziale.
Nelle esecuzioni immobiliari, posto che il Professionista Delegato ha l’onere di indicare nel bando di vendita qual è il bene oggetto di vendita e che per effetto dell’art. 2922, co. 1, c.c., nella vendita forzata non opera la garanzia per vizi della cosa (per cui non trovano applicazione gli artt. 1490 e 1497 c.c.) è evidente che vi deve essere una differenza irriducibile17 tra bene indicato nel bando di vendita e bene aggiudicato , perchè in tal caso si è ritenuto che “l’assenza della garanzia per vizi di cui all’art. 2922 non riguarda anche la mancanza di qualità essenziali che è, invece, idonea a fondare l’impugnativa della vendita (per il caso in cui si lamentava l’inesistenza di una piscina descritta e la minor estensione del terreno intorno ad un villino)”.
Pertanto, vi deve essere una palese carenza delle qualità necessarie perché il bene aggiudicato possa assolvere alla sua naturale funzione economico sociale. Se l’acquirente (rectius offerente) non può destinare all’uso che ha costituito elemento fondante dell’offerta di acquisto il bene, è evidente che non si tratta di un semplice vizio che è ontologicamente diverso da quello tutelato dagli artt. 1490 e 1497 c.c. che non trovano qui applicazione.
Se si pone in vendita una unità immobiliare formalmente indicandola come piena proprietà del debitore esecutato, ma in realtà – con riferimento al regime patrimoniale della famiglia – acquistato in comunione dal debitore esecutato, è evidente che si vende una cosa diversa: un bene non in piena proprietà19 , aspetto che va adeguatamente indicata nel bando d’asta.
Se si mette in vendita un’unità definita come casa di abitazione, ma in realtà trattasi di bene abusivamente edificato su zone vincolate a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici, ovvero all’interno della c.d. fascia di servitù idraulica a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali, è evidente che quello posto in vendita non è un immobile che è possibile adibire ad uso abitativo.
Si è già detto all’inizio di questa relazione che le nullità di cui al secondo comma dell’articolo 40 della legge 28 febbraio 1985 n. 47 non si estendono ai trasferimenti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali e, quindi, che anche gli immobili abusivi possono essere venduti all’asta, ma solo a condizione che ciò sia stato dichiarato nel bando di vendita.
Ebbene: la Suprema Corte nel 2016 ha chiarito il limite oltre il quale la negligenza del potenziale acquirente nell’esaminare il bando di vendita, la relazione di stima e quant’altro pubblicato per consentire l’adeguata informazione dell’acquirente, diviene vizio tutelabile con l’istituto dell’aliud pro alio.
Tale decisione afferma testualmente: “Il principio di diritto che va affermato in proposito è che non tutte le circostanze rilevanti ai fini della precisa individuazione delle caratteristiche del bene offerto in vendita, così come l’esistenza di eventuali oneri o diritti di terzi inerenti allo stesso, e in generale le informazioni comunque rilevanti ai fini della determinazione del suo valore, devono essere dettagliatamente esposte nell’ordinanza di vendita e indicate nella relativa pubblicità, purchè esse siano comunque ricavabili dall’esame della relazione di stima e del fascicolo processuale, che è onere (e diritto) degli interessati all’acquisto consultare prima di avanzare le offerte”
Nella pratica possono verificarsi casi di:
• immobile aggiudicato che presenta abusi insanabili non segnalati in perizia e non indicati nel bando di vendita
• immobile avente ubicazione, indirizzo, estensione e pertinenze difformi da quelle reali
• immobile gravato da usufrutto, ovvero posto in vendita per il solo usufrutto
• inesistenza di servitù indicate come esistenti ovvero inesistenza di accessi indicati invece come esistenti in virtù del
principio secondo cui le servitù non sono trasferibili separatamente dal fondo a cui ineriscono
• immobili non accatastati o con planimetrie difformi oppure con categorie catastali difformi ovvero senza certificazione di abitabilità
• immobili aventi pertinenze (ad es. ripostigli) risultanti dal titolo di provenienza ma non dichiarate
• obbligazioni propter rem incidenti sull’immobile non evidenziati
• mancanza del certificato di destinazione urbanistica nella relazione di stima
Non è stata invece ritenuta concretare l’ipotesi di aliud pro alio nel caso della vendita della proprietà superficiaria non essendo stato ritenuto applicabile l’art. 1489 c.c. mancando la “diminuzione del libero godimento”.
Ovviamente ove si verifichi uno dei casi in questione od altri ove appaia diverso il bene venduto da quello pignorato, è buona norma investire il G.E. del problema e questi potrà, ai sensi dell’art. 487 c.p.c., certamente sospendere la vendita ed anche revocare l’ordinanza di vendita ove non siano adeguatamente state evidenziate le problematiche del caso.
Non solo, ma è il delegato che redigendo l’avviso di vendita deve dar conto di tutte le “problematiche” inerenti il bene subastato, non solo perchè l’informazione sia il più possibile ampia, ma per evitare opposizioni (oltre che responsabilità per violazione del proprio dovere di diligenza).
Infatti, in mancanza l’aggiudicatario – che ovviamente ha il dovere e il diritto di consultare la relazione di stima e il fascicolo processuale prima di formulare la sua offerta – ha titolo e diritto per proporre opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso l’aggiudicazione.
La mancanza dell’opposizione (o il suo rigetto), ovviamente, rende definitiva la vendita e non più tutelabile l’eventuale errore.
A prescindere, comunque dalla segnalazione del Delegato, ove il procedimento di vendita completi il suo corso, ma l’aggiudicatario si renda conto di aver ricevuto un bene ad esempio di minor superficie o comunque difforme da quello formalmente acquistato, è stata ritenuta ammissibile anche l’azione di riduzione del prezzo: “nell’ipotesi in cui il bene trasferito sia solo quantitativamente diverso da quello descritto nell’ordinanza di vendita, e la domanda dell’interessato sia diretta semplicemente alla restituzione di parte del prezzo, è escluso il ricorso al rimedio regolato dall’art. 1497 c.c. ed il conseguente annullamento della vendita. La parziale inesecuzione del contratto fa sorgere, invero, il diritto dell’acquirente alla ripetizione di parte del prezzo (obbligazione, questa, che si configura come debito di valuta e non di valore), rimedio ammissibile anche in caso di esecuzione forzata. Ed infatti, l’art. 2921, comma 2, c.c., consentendo all’aggiudicatario che non riesca a conseguire una parte del bene il diritto a ripetere una parte proporzionale del prezzo di aggiudicazione, impedisce che si verifichi un indebito arricchimento di coloro che dovranno ripartirsi il prezzo ricavato dalla vendita, in applicazione del principio generale della ripetizione dell’indebito”.
E’ questa l’applicazione del principio dell’evizione previsto dall’art. 2921 c.c. che consente all’aggiudicatario di ripetere il prezzo non ancora distribuito o, in caso di avvenuta distribuzione, di ripetere da ciascun creditore (ad eccezione dei creditori privilegiati cui l’art. 2921 non si applica, salva l’ipotesi dell’azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c.) la parte riscossa, “salva la responsabilità del creditore procedente per i danni e per le spese”, ovvero, in caso di evizione parziale, la “parte proporzionale del prezzo”. Pertanto, schematicamente, può così riassumersi la posizione dell’acquirente evitto come prevista dall’art. 2921 c.c.:
– in caso di evizione totale, l’aggiudicatario può ripetere l’intero prezzo pagato, meno le spese;
– in caso di evizione parziale, l’aggiudicatario può ripetere la parte proporzionale del prezzo;
– se l’aggiudicatario ha evitato l’evizione pagando una somma di denaro, può ripetere la somma pagata.
E’ una vera e propria azione di rivendica, quella che l’aggiudicatario può porre in essere ma che non pone in discussione l’aggiudicazione che resta definitiva. Tanto sia che venga proposta nel corso della procedura esecutiva come opposizione di terzo ex artt. 619 e 620 c.p.c., sia che venga proposta a processo esecutivo concluso con le forme proprie del giudizio ordinario di cognizione.
Come tutte le azioni, anche questa è soggetta a rigida verifica probatoria che dovrà accertare quanto dedotto dall’aggiudicatario, anche in termini di conoscenza. Infatti, in una pronunzia non molto lontana, relativa a procedura fallimentare (anche se la materia non ha rilievo), la Suprema Corte ha ritenuto che non sia ammessa l’azione di riduzione del prezzo con conservazione dell’acquisto, in un caso in cui l’acquirente era a conoscenza della situazione reale del bene.
Ovviamente, tutte queste possibili problematiche espongono sia il C.T.U. che non abbia adeguatamente valorizzato tutte le problematiche del bene, che il Professionista Delegato, a responsabilità professionale oltre che beninteso a quella penale, ove ve ne siano gli estremi (falso, appropriazione indebita, ecc.).
Entrambi, infatti, sono ausiliari del Giudice (e come tali la loro responsabilità è prevista dagli artt. 61 e ss. c.p.c.) e, poichè la loro funzione è quella di liquidare il bene pignorato, è evidente che nel caso di loro inadempimento il danno procurato è risarcibile ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2043 c.c. . Inoltre, ove il professionista delegato abbia assunto anche le funzioni di custodia, è responsabile verso i creditori nei casi di inosservanza dei relativi doveri di conservazione e buona amministrazione dei beni pignorati, ove, beninteso, siano esigibili determinate condotte e purchè le stesse abbiano provocato un danno ai beni, compromettendone la possibilità satisfattoria sul ricavato della vendita come indicato nel paragrafo successivo.
I suddetti ausiliari sono inoltre responsabili ogni qualvolta si discostino da quanto indicato dal G.E. nei provvedimenti prelativi a ciascuno di essi.
Sui sequestri penali e la confisca dell’immobile pignorato
Può aversi evizione anche in caso di sequestro penale o confisca, risolvibile in gran parte secondo i principi dell’anteriorità delle trascrizioni.
Se ne è occupata la Suprema Corte nella recente pronunzia n. 28242 del 10/12/2020 secondo cui “se la trascrizione del sequestro preventivo è successiva a quella del pignoramento, il bene deve ritenersi appartenente al terzo aggiudicatario pieno iure, con conseguente impossibilità di una confisca posteriore all’acquisto. L’evoluzione della disciplina sostanziale e processuale della confisca (tra cui soprattutto quella introdotta dalla razionalizzazione operata con la legge 17 ottobre 2017, n. 161) e la giurisprudenza di legittimità penale hanno chiaramente interpretato come speciale la disciplina dettata dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (codice delle leggi antimafia), così escludendo che questa possa reputarsi invece espressione di un principio generale di prevalenza delle esigenze pubblicistiche sottese ai corrispondenti istituti in materia penale e di prevenzione. Ne segue che, da un lato, i rapporti tra confisca e procedure esecutive civili sono regolati dal d.lgs. 159/2011 (con sostanziale prevalenza dell’istituto penalistico sui diritti reali dei terzi, che solo se di buona fede possono vedere tutelate le loro ragioni, ma in sede di procedimento di prevenzione o di esecuzione penale) esclusivamente nelle ipotesi di confisca che sono disciplinate da quello direttamente o da norme che esplicitamente vi rinviano e, dall’altro, che pure a regolare i rapporti tra le tipologie di confisca diverse da quelle del d.lgs. 159/2011 (e da quelle ad esse equiparate per espressa previsione normativa) e le procedure esecutive civili si applica il principio generale della successione temporale delle formalità nei pubblici registri”.
Il riferimento alla legge antimafia è fondamentale, specie a seguito della riforma perché questa normativa ha caratteristiche peculiari che irrompono in varie discipline con effetti rilevanti e anche.
Tanto perché l’art. 55 della legge antimafia dispone al primo comma che “A seguito del sequestro non possono essere iniziate o proseguite azioni esecutive. I beni già oggetto di esecuzione sono presi in consegna dall’amministratore giudiziario”. Quindi al secondo comma dispone che “Le procedure esecutive già pendenti sono sospese sino alla conclusione del procedimento di prevenzione. Le procedure esecutive si estinguono in relazione ai beni per i quali interviene un provvedimento definitivo di confisca. In caso di dissequestro, la procedura esecutiva deve essere iniziata o riassunta entro il termine di un anno dall’irrevocabilità del provvedimento che ha disposto la restituzione del bene”.
L’art. 55 cit.), tuttavia, non è allo stato, applicabile ai sequestri “ordinari” e cioè a quelli strumentali ad una confisca ex artt. 240 o 322-ter c.p.
Come è noto, v’è una netta distinzione tra i sequestri e confische antimafia (disciplinati dal Codice antimafia), i sequestri e confische ex art. 12-sexies (cosiddetta “confisca allargata”) e i sequestri e confische ex art. 240 c.p. (in relazione al 321, comma 2, c.p.p.): solo nei primi due si applica l’art. 55 citato e non in tutti.
Questo almeno fino al01/09/2021 data di entrata in vigore del D.Lgs. 14/2019 (meglio noto come Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) allorchè cambierà ulteriormente l’area di applicazione della normativa antimafia essendo previsto che “Ai casi di sequestro e confisca in casi particolari previsti dall’articolo 240-bis del codice penale o dalle altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, nonché agli altri casi di sequestro e confisca di beni adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice, si applicano le disposizioni del titolo IV del Libro I del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”.
Vi è però un problema di diritto intertemporale dal 06/03/2018 (data di entrata in vigore del DLT 1/3/18 n. 21 che modificava l’art. 104 bis disp. att. c.p.p.) perché dopo tale data si applica la normativa antimafia “ai casi di sequestro e confisca in casi particolari previsti dall’articolo 240-bis del codice penale o dalle altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano”.
Il sistema normativo sul punto è a dir poco intricato e le pronunzie della Suprema Corte devono essere rapportate alla data del sequestro disciplinato dalla normativa in quel momento vigente.
In termini generali, va detto che normalmente, se il sequestro interviene in corso di procedura, il GE non ha modo di avere autonoma conoscenza di tale trascrizione, per cui prima della vendita e prima della pubblicazione del decreto di trasferimento occorre procedere alle necessarie ispezioni ipotecarie così come disposto da alcuni GE, salvo che ovviamente non sia intervenuta apposita comunicazione da parte dell’amministratore giudiziario. In tal caso il GE potrà sospendere la procedura esecutiva.
Sui danni arrecati dal debitore all’immobile pignorato ed eventuale riduzione del saldo prezzo
L’art. 65 c.p.c. dispone che è compito del custode conservare ed amministrare i beni sequestrati o pignorati, obbligo che per effetto della riforma dell’art. 560 cpc che salvo le ipotesi del VI comma prevede che quando l’immobile pignorato è abitato dal debitore e dai suoi familiari il giudice non può mai disporre il rilascio dell’immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento impone al custode il compito di “amministrazione e gestione” del bene pignorato una volta effettuata la liberazione e sino all’immissione dell’aggiudicatario nel possesso, con il correlativo obbligo, imposto dall’art. 67, comma secondo, c.p.c., del risarcimento dei danni cagionati alle parti, se il custode non esercita appunto la custodia da buon padre di famiglia.
Oltre alle generiche responsabilità penali inerenti i doveri di custodia previste dagli artt. 334 (sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro) e 335 (violazione colposa dei doveri inerenti la custodia) c.p., e l’omissione o ritardo indebitamente nel compimento di un atto del suo ufficio (art. 388, 5° co., c.p.), l’art. 67 c.p.c. attribuisce al giudice la facoltà di condannare il custode, che non esegue l’incarico assunto o lo esegue in difformità dalle
disposizioni ricevute, ad una pena pecuniaria nonché al risarcimento dei danni cagionati alle parti se non esercita la custodia da buon padre di famiglia (art. 67, 2° co.), oltre che beninteso alla revoca dell’incarico.
Tuttavia, perché possa applicarsi l’art. 67 c.p.c. è necessario che il custode possa esercitare di fatto il controllo sul bene. Se, invece, come avviene normalmente e come è previsto dall’art. 560 comma 3, è il debitore ad avere “il possesso” dell’immobile, è evidente che i danni arrecati all’immobile dal debitore che ne sia in possesso non possano essere addebitati al Custode terzo professionista. Non vi è, infatti, una condotta esigibile dal Custode che sia in grado di prevenire tali condotte, salva l’ipotesi in cui effettuato il primo accesso o quelli periodici presso l’immobile pignorato, non segnali al GE le ipotesi di violazione degli obblighi posti in capo al debitore e ai suoi familiari e di cui all’art. 560 c.p.c., comma 6 nuovo conio..
La Suprema Corte, in tema di locazione, materia nella quale la posizione del conduttore è analoga a quella del custode della procedura esecutiva (avendo entrambi la disponibilità della cosa di proprietà altrui), ha affermato che “poiché la responsabilità ex art. 2051 c.c. implica la disponibilità giuridica e materiale del bene che dà luogo all’evento lesivo, al proprietario dell’immobile locato sono riconducibili in via esclusiva i danni arrecati a terzi dalle strutture murarie e dagli impianti in esse conglobati, di cui conserva la custodia anche dopo la locazione, mentre grava sul solo conduttore la responsabilità per i danni provocati a terzi dagli accessori e dalle altre parti dell’immobile, che sono acquisiti alla sua disponibilità”.
Se così è, vale a dire la prevalenza del requisito della “disponibilità”, è evidente che nessuna responsabilità può individuarsi in capo al custode mancando una condotta del custode idonea ad impedire eventuali atti vandalici verificatisi e, correlativamente, non può esservi alcuna responsabilità risarcitoria dello stesso.
Resta, ovviamente, la responsabilità penale che riguarda anche gli accessori o pertinenze dell’immobile, non essendo il bene identificato esclusivamente dai suoi dati catastali quello tutelato dall’ordinamento, salvo, precisa la Corte, che “il tenore del verbale di pignoramento e dell’ordinanza che dispone la vendita non consenta di escludere l’estensione ad essi dell’esecuzione”. Se ne è occupata Cass. Pen. 19.6.2007, n. 23754 che riguardava un caso in cui il debitore aveva asportato dall’immobile pignorato gli infissi, i termosifoni, i pavimenti, la porta blindata, la caldaia, i pannelli in cartongesso di tamponamento e finanche una pergola pompeiana ed una vasca idromassaggio. In tal caso la Suprema Corte ha evidenziato come “l’identificazione del bene assoggettato a pignoramento, da effettuare in base agli elementi obiettivi contenuti nel decreto di trasferimento di cui all’art. 586 c.p.c., non esclude l’applicabilità dell’art. 2912 c.c. – richiamato dalla stessa Corte territoriale -, in virtù del quale il pignoramento comprende gli accessori, le pertinenze – cioè tutto ciò che concorre a definire il valore economico del bene esecutato – e i frutti della cosa pignorata, qualora la descrizione del bene stesso non contenga elementi utili a far ritenere che in sede di vendita si sia inteso escludere la suddetta estensione.”. In tal modo la Corte ha ritenuto compresi nel pignoramento (e quindi nella custodia) anche tali beni, annullando la pronunzia assolutoria del giudice del merito, per la verifica del verbale di pignoramento e dell’ordinanza che dispone la vendita, al fine di valutare la loro positiva inclusione nell’esecuzione forzata.
Naturalmente, i mezzi di tutela preventiva azionabili sono quelli previsti dall’art. 560 c.p.c. oltre che quelli ordinariamente azionabili in sede penale.
Cass. civ. Sez. I, 17/02/1995, n. 1730 e Cass. civ. Sez. III, 30/06/2014, n. 14765 si sono occupate del problema evidenziando come “in caso di perdita o come nella specie di danneggiamento della cosa venduta successivo all’aggiudicazione, ma anteriore all’emissione del decreto di trasferimento, il debitore è invero tenuto al risarcimento del danno subito dal creditore in conseguenza dell’inadempimento, se non prova che esso è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (negli stessi termini, più recentemente, Cass. 30/06/2014, n. 14765).
Tanto, però, non incide sul saldo prezzo che resta dovuto, a meno che tali danni siano di tale entità e caratteristiche da far rientrare la fattispecie nella ipotesi di aliud pro alio, a condizione della positiva dimostrazione che tali danni sono talmente ingenti da compromettere del tutto la destinazione all’uso previsto e che la conformazione dell’immobile come riportato nel bando di vendita abbia costituito elemento dominante per la formazione della volontà ad acquistare in capo all’offerente.
Sulle ipotesi tassative della sospensione della vendita a prezzo ingiusto
L’art. 586 I comma c.p.c. prescrive che “Avvenuto il versamento del prezzo, il giudice dell’esecuzione può sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto”.
Tanto può avvenire perché il bene pignorato subisce un eccessivo ribasso rispetto all’effettivo valore dello stesso a causa di una serie di tentativi di vendita infruttuosi e consegua a fatti che le parti non conoscevano prima e quindi non avrebbero potuto prospettarli in precedenza al G.E. durante le normali scansioni processuali che portano alla vendita.
Pertanto, l’ordinamento, per evitare che l’espropriazione del debitore si risolva in una svendita dei suoi beni accorda tale facoltà al GE.
Trattasi di norma introdotta dall’art. 19 bis della L. n. 203/91, che aveva lo scopo di contrastare il fenomeno delle cd. “vendite pilotate” la cui logica è duplice: da un lato evitare ingerenze esterne e dall’altro provvedere al maggiore realizzo possibile per la massa. Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato come la norma risponda all’esigenza “di contrastare tutte le possibili interferenze illegittime nel procedimento di fissazione del prezzo delle vendite forzate immobiliari” e per introdurla si è utilizzato lo schema dell’art. 108 L.F.
In tali ipotesi si verifica, a seconda dei casi, l’impossibilità di pronunziare il decreto di trasferimento del bene, la revoca dell’aggiudicazione e degli atti ad essa consequenziali con conseguente restituzione delle somme versate dagli aggiudicatari ed – eventualmente – la fissazione di un nuovo procedimento di vendita adeguando il prezzo base rispetto al reale valore del bene.
La Suprema Corte , in un caso in cui era emerso che il bene pignorato, destinato ad uso ufficio, mentre, in realtà, era una villa, facente parte di un complesso residenziale ben attrezzato, ha ritenuto che “il Tribunale si sia posto espressamente in contrasto con i principi da essa affermati in ordine al doversi ravvisare il punto di partenza per l’esercizio del potere dell’art. 586 c.p.c. in “interferenza di fattori devianti nella procedura di vendita” ed abbia invece ritenuto che l’esercizio del potere possa essere giustificato sulla base del “semplice criterio della mera sproporzione numerica di aggiudicazione e valore venale del bene nel libero mercato” ha evidenziato come tale potere possa essere esercitato quando:
a) si verifichino fatti nuovi successivi all’aggiudicazione;
b) emerga che nel procedimento di vendita si siano verificate interferenze illecite di natura criminale che abbiano influenzato il procedimento, ivi compresa la stima stessa;
c) il prezzo fissato nella stima posta a base della vendita sia stato frutto di dolo scoperto dopo l’aggiudicazione;
d) vengano prospettati, da una parte del processo esecutivo, fatti o elementi che essa sola conosceva anteriormente all’aggiudicazione, non conosciuti né conoscibili dalle altre parti prima di essa, purché costoro li facciano propri, adducendo tale tardiva acquisizione di conoscenza come sola ragione giustificativa per l’esercizio del potere del giudice dell’esecuzione;
E’ evidente che con tale sentenza la Suprema Corte supera il mero concetto delle “illegittime interferenze “criminose”, per affermare che ove sussistano ulteriori elementi che possano far ritenere che la gara non è stata regolare o, in maniera più ampia, che l’intero procedimento esecutivo possa essere viziato da fattori esterni.
Tuttavia, nel caso di specie è stato ritenuto che il G.E. avesse impropriamente applicato l’art. 586 c.p.c. perché gli elementi di fatto relativi alla consistenza e destinazione dell’immobile erano evidentemente preesistenti già al momento della stima e né erano stati considerati dal perito che aveva effettuato la stima e nemmeno evidenziati dalle parti in quel momento43 e per tale motivo ha cassato la pronunzia.
Recentemente poi la giurisprudenza ha chiarito, confermando l’orientamento di Cass. 18451/15 che la sproporzione tra il giusto prezzo e quello offerto, perché possa applicarsi l’art. 586 c.p.c. può discendere anche da fattori fisiologici, come gli eccessivi ribassi conseguenti ad aste deserte che, in quanto tali, senza la positiva prova di ulteriori elementi non integrano un prezzo ingiusto. E’ quanto sostenuto da ultimo “Non integra un prezzo ingiusto di aggiudicazione, idoneo a fondare la sospensione prevista dall’art. 586 c.p.c., quello che sia anche sensibilmente inferiore al valore posto originariamente a base della vendita, ove questa abbia avuto luogo in corretta applicazione delle norme di rito, né si deducano gli specifici elementi perturbatori della correttezza della relativa procedura elaborati dalla giurisprudenza, tra cui non si possono annoverare l’andamento o le crisi, sia pure di particolare gravità, del mercato immobiliare.”
Ovviamente l’art. 586 c.p.c. non indica criteri specifici di individuazione di quale sia il “giusto prezzo”, ma rimette la loro valutazione all’equo apprezzamento del G.E. che potrà avvalersi di tutti gli elementi di anomalie emergenti dal ma anche fatti notori e fatti nuovi e sopravvenuti alla stima del bene immobile oggetto della vendita all’incanto, perché – e questo è confermato anche dall’art. 164 bis disp. att. c.p.c.
Tale norma è stata introdotta dal D.L. 12/9/2014, n. 132, e prevede che sia disposta la chiusura anticipata della procedura quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo.
Combinando tali norme si può affermare che al G.E. sia stato attribuito un potere discrezionale ampio, finalizzato ad assicurare che la procedura esecutiva abbia un esito economicamente valutabile, che sarebbe evidentemente frustato dalla prosecuzione di un’azione infruttuosa e costosa.
Tale potere va esercitato dopo l’aggiudicazione e non dopo il versamento del prezzo da parte dell’aggiudicatario, perché è l’aggiudicazione che fa sorgere una nuova fase nel processo esecutivo: quella che porta al decreto di trasferimento.
Un accenno all’estinzione anticipata del processo esecutivo con specifico riferimento ai casi di pagamento integrale dei creditori, dichiarazione di fallimento, accesso alla procedura di concordato preventivo o crisi da sovraindebitamento, caducazione del titolo del creditore procedente e perenzione del pignoramento ex art 2668 ter c.c.
Ultima tematica che si affronta solo per completezza di esposizione, è quella della estinzione anticipata del processo esecutivo che viene esaminata tuttavia, vista la tematica della sessione, solo con riferimento alla posizione dell’aggiudicatario secondo le varie pronunzie giurisprudenziali succedutesi.
Si è già accennato, in relazione al commento sull’art. 2929 c.c. al fatto che in caso di rinuncia dei creditori procedente ed intervenuti, l’aggiudicazione resta ferma nei confronti del terzo aggiudicatario, perchè nella sequenza degli atti dell’esecuzione fino alla vendita, l’aggiudicazione diviene l’ultimo momento utile per il debitore di poter riottenere la disponibilità del bene normalmente non più vincolato dopo l’estinzione della procedura.
Tanto prescrivono l’art. 632 c.p.c., comma 2 e l’art. 187 bis disp. att. c.p.c.: non è necessaria alcuna istanza45 essendo dirimente solo il verbale di aggiudicazione redatto dal Professionista Delegato all’esito dell’esperimento della vendita.
Questo principio si applica anche alle vendite in sede fallimentare non essendo stato ritenuto più esercitabile da parte del G.D. il potere di sospendere la vendita ex art. 108 L.F. e nel caso in cui il debitore abbia avuto accesso alla procedura di sovraindebitamento ex art. 10 L. n. 3 del 2012, dato che l’improcedibilità dell’esecuzione individuale non deroga all’art. 187 bis disp. att. c.p.c..
Nella materia fallimentare la pronunzia indicata ha ritenuto di mutare l’orientamento pregresso che ammetteva la possibilità per il G.D. di avvalersi dell’art. 108 L.F., alla luce della decisione di Cass., sez. unite, 30/11/2006, n. 25507, “che ha riconosciuto valore d’interpretazione autentica alla norma di cui all’art. 187 bis disp. att. cod. proc. civ.”.
Ovviamente trattasi di caso inerente una procedura fallimentare precedente all’entrata in vigore del D. Lgs. 169/07 che ha modificato il suddetto art. 108 LF nel senso che “Per i beni immobili e gli altri beni iscritti in pubblici registri, una volta eseguita la vendita e riscosso interamente il prezzo, il giudice delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo”.
Nel caso in cui il debitore abbia accesso al concordato preventivo, l’aggiudicazione, ai sensi dell’art. 187 bis disp. att. c.p.c., va comunque disposta avendo l’aggiudicatario “diritto alla pronuncia del decreto di trasferimento in suo favore, una volta versato il saldo prezzo” atteso che “l’art. 187bis disp. att. c.p.c. che è norma di portata generale volta a tutelare l’aggiudicatario in tutte le ipotesi di estinzione o chiusura anticipata della procedura esecutiva”, con l’unico obbligo di accantonamento delle somme sino al momento della omologazione del concordato preventivo.
Sulla caducazione del titolo del creditore procedente, inizialmente la Suprema Corte aveva ritenuto di applicare alla lettera il noto brocardo nulla executio sine titulo, giungendo ad affermare che ove il titolo del creditore procedente dovesse essere revocato o comunque perdere efficacia esecutiva, la procedura esecutiva anche in presenza di altri creditori intervenuti muniti di titolo, dovesse estinguersi, salvo la presenza di ulteriori pignoramenti.
La questione è stata tuttavia risolta dalle Sezioni Unite nel 2014 nel senso che occorre, per evitare l’estinzione, la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo, a meno che l’intervento non sia successivo alla caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente, perchè in quel caso la estinzione si sarebbe già verificata di diritto.
Tale pronunzia ha corretto la precedente del 2009 che aveva dichiarato improseguibile il processo esecutivo e dichiarata nulla l’intera attività esecutiva compiuta fino al decreto di trasferimento dell’immobile all’aggiudicatario.
Ultimo riferimento è quello che riguarda la perenzione del pignoramento exart. 2668 ter c.c.: trattasi di norma introdotta al pari dell’art. 2668 bis c.c. dalla legge n. 69/09 e per effetto della quale la trascrizione del pignoramento conserva il suo effetto per venti anni dalla sua data, per cui se non vi è rinnovazione della trascrizione prima che scada il termine ventennale, si verifica una causa di estinzione del processo di esecuzione.
Trattasi di estinzione avente efficacia meramente ricognitiva52 cosa che comporta che una volta verificatasi l’estinzione di diritto, l’aggiudicazione è salva solo se intervenuta nel ventennio di efficacia della trascrizione del pignoramento.
Fonte QUI.
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